
Qui sotto pubblichiamo l’intervento di mons. Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes, alla presentazione del settimo rapporto Italiani nel mondo.
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Presentazione del Rapporto Italiani nel Mondo 2012
(Roma, 30 maggio 2012)
Relazione introduttiva di mons. Giancarlo Perego
Il settimo Rapporto della Fondazione Migrantes sugli italiani nel mondo viene pubblicato in una fase molto difficile per l’Italia. Il Paese sta conoscendo, dal 2008, gli effetti di una crisi mondiale che ha ricadute pesanti in Europa. La crisi aveva dato i suoi primi segni già nel 2001, l’anno in cui è stata approvata la legge che regolamenta il diritto di voto degli italiani all’estero. Non pochi si sono chiesti (e continuano a chiedersi) se non sia stato uno sbaglio, a fronte dei problemi urgenti del Paese, prevedere questa apertura elettorale a beneficio di cittadini lontani. Come anche dieci anni prima, nel 1992, in occasione della nuova legge sulla cittadinanza, con la quale a fronte dell’allungamento dei tempi per la richiesta della cittadinanza erano state ampliate le opportunità offerte agli oriundi dei pionieri dell’emigrazione italiana, molti ritennero che sarebbe stato più opportuno privilegiare l’accesso alla cittadinanza degli immigrati stranieri in Italia, o quanto meno dei loro figli.
È una strategia debole quella di occuparsi della presenza dei cittadini stranieri in Italia andando contro gli emigrati italiani, oppure quella di farsi carico degli italiani nel mondo ponendosi contro gli immigrati. Si tratta di due grandi fenomeni sociali, che riguardano ciascuno oltre i 4 milioni di persone, che caratterizzeranno anche gli scenari futuri e che bisogna riuscire ad affrontare correttamente.
Per seguire il fenomeno dell’emigrazione italiana, che non è finito ma è cambiato – come è stato ricordato anche nella recente Assemblea dei Vescovi italiani (21-25 maggio 2012) in cui è stato presentato il nuovo Statuto della Fondazione Migrantes – e per aiutare a superare il senso di distanza e separazione nei confronti degli emigrati, la Fondazione Migrantes, nel 2006, ha iniziato la pubblicazione del Rapporto Italiani nel Mondo. In questi anni, il Rapporto è diventato uno strumento per una maggiore presa di coscienza di quanto sia inevitabile “incontrare” oggi questa Italia migrante nel panorama della mobilità europea e internazionale. Proprio da quanto detto, si desume la necessità di utilizzare nuove chiavi di lettura spinti dalle caratteristiche diverse che ineriscono gli attuali migranti, a cominciare dalla loro preparazione e dal progetto con cui partono e che il più delle volte finiscono col riuscire a realizzare all’estero, avendo più volte tentato di aprire inutilmente porte in Italia. Il discorso non è la necessità di far tornare oppure il riuscire a non far partire i giovani: il discorso è un altro. La partenza non deve essere conseguenza di un bisogno ma una normale fase di passaggio per un miglioramento e un confronto a livello europeo e internazionale che porti alla circolazione di idee e sproni a nuove progettualità.
Nell’introdurre a questo settimo Rapporto Migrantes mi sono soffermato sulla necessità di superare una certa distanza che esiste tra gli italiani nel mondo e gli italiani in Italia. A tale proposito, tre sono i punti che cercherò di approfondire: 1. L’emigrazione fenomeno non solo storico ma parte del nostro presente; 2. Come inquadrare l’Italia dall’estero; 3. Come inquadrare gli italiani nel mondo dall’Italia.
Come abbiamo visto lo scorso anno, l’emigrazione italiana ha riempito 150 anni di storia unitaria, con fasi particolarmente intense e anche drammatiche, ma non può essere ridotta a una vicenda del passato ma, al contrario – questa almeno è la tesi della Fondazione Migrantes – deve richiamare anche attualmente la nostra attenzione. Alla fine dell’Ottocento, all’inizio del Novecento, perfino nel periodo tra le due guerre, nonostante la grande depressione degli anni ’30 e l’isolamento dell’Italia, e infine per oltre un quarto di secolo, dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia è stata un popolo di emigranti. Milioni di italiani hanno cercato, con l’esodo, di riscattarsi dalla condizione di miseria e, anche senza istruzione e senza mezzi, sono stati capaci di partire, di sopportare sistemazioni degradanti, umiliazioni e ingiustizie e, alla fine, con le seconde e le terze generazioni, arrivare a un inserimento soddisfacente, riuscendo a garantire il benessere della propria famiglia e proponendosi come umili ma efficaci ambasciatori del proprio Paese. Ognuno di noi ha molti esempi davanti agli occhi. Il Rapporto ci ricorda solo un esempio significativo. Nel 1871, nei “block” newyorkesi di Mulberry Street o Bayard Street, il famoso fotoreporter Jakob Riis (1849-1914) contò 1.324 italiani ammucchiati in 132 stanze. Questa evoluzione dell’emigrazione italiana non può portare a ritenere che tutti gli emigrati siano diventati ricchi o famosi, anche se non sono pochi i casi di successo. L’indicatore più attendibile della riuscita della collettività italiana consiste nell’inserimento proficuo nel lavoro e nella predisposizione alla solidarietà e all’impegno per la sua tutela, nell’attaccamento alla famiglia e nella difesa dei suoi valori, nel rispetto delle leggi e della cultura del paese di accoglienza senza rinnegare la propria appartenenza culturale, nel tener viva l’ispirazione di fede ravvivandone i contenuti. La Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Chiesa in Italia, mentre è particolarmente sensibile alla cura della dimensione religiosa delle persone e famiglie migranti, riconosce nella vicenda migratoria lo strumento per il passaggio da una situazione insoddisfacente a una speranza più ampia: situazione denominata dal Magistero ‘sviluppo integrale’ della persona e dei popoli (cfr. le encicliche Paolo VI, Populorum progressio e Benedetto XVI, Caritas in veritate). Per questo motivo, mi piace sottolineare il ruolo svolto dalle Missioni Cattoliche Italiane, che fin dall’inizio della vicenda migratoria sono state un presidio per i connazionali. L’attenzione della Chiesa per i migranti si riferisce non solo alla evangelizzazione e amministrazione dei sacramenti né si limita a sollevare le sofferenze e i disagi con l’assistenza caritativa, ma comprende la promozione dei diritti umani e della giustizia verso ogni persona, di cui la cittadinanza è uno strumento. La cura pastorale della Chiesa per i diritti degli emigranti è radicata nella nota della cattolicità della Chiesa, che è un segno e strumento dell’unità della famiglia umana. Nella varietà delle tante realtà che la compongono vede esaltata la sua universalità, col superamento di ogni forma di etnocentrismo e la realizzazione della convivialità delle differenze, come ricorda l’Istruzione pontificia La carità di Cristo verso i migranti 2004 nn.16-17. Diverse Missioni Cattoliche Italiane hanno celebrato il loro 50° anniversario e altre stanno per farlo, mentre molte altre sono come origini addirittura centenarie. Sono state scritte pagine bellissime da sacerdoti, suore e laici, che in parte le diverse edizioni del Rapporto Italiani nel Mondo hanno proposto alla riflessione – come quest’anno è il caso del beato don Luigi Guanella, sacerdote comasco – e che anche le Chiese locali, col tempo, hanno imparato ad apprezzare, riconoscendo il valore aggiunto della differenza nella Chiesa. Certamente, in un contesto profondamente cambiato, in cui ai pionieri dell’emigrazione si sono sovrapposte le successive generazioni di giovani, studenti e professionisti, un maggior numero di donne, i missionari italiani, sempre meno numerosi e sempre più anziani, ma ancora oltre 400, sono chiamati a rinnovare la pastorale, anche alla luce delle situazioni sociali, culturali e religiose in cui si è inseriti. Sono i travagli tipici dei grandi cambiamenti, nell’era della globalizzazione, della nuova evangelizzazione che non riguardano solo le Missioni Cattoliche Italiane, ma anche tutte le strutture che hanno sorretto l’evoluzione dell’emigrazione italiana: dalle società di mutuo soccorso, alle altre iniziative di solidarietà civile (come quella dei pompieri Garibaldi, tuttora operante in Perù o al fondo di solidarietà a Francoforte attivato da cento bancari italiani della Banca europea), dai circoli sportivi alle bande musicali, dalle associazioni paesane e regionali alle grandi associazioni nazionali, le testate giornalistiche (molte tuttora operanti – Corriere d’Italia di Francoforte e il Corriere degli italiani di Zurigo – e altre costrette a chiudere come La Voce degli Italiani a Londra, nata nel 1948) e istituti di patronati. Questa panoramica sulle strutture degli italiani non può dimenticare il loro sviluppo grazie a una rinnovata legislazione, che ha permesso la nascita dei Comitati degli Italiani all’estero (Comites), del Consiglio Generale dell’Italiani all’Estero (CGIE) e l’elezione dei parlamentari nella Circoscrizione estera degli italiani nel mondo. Concludo questo primo punto della mia riflessione, sottolineando che la storia dell’emigrazione italiana è iniziata ieri e continua tutt’oggi e che noi siamo sollecitati a leggere eventi e figure storiche anche alla luce dell’ attuale fotografia del fenomeno migratorio. Ritornando alla figura di don Guanella, desta sorpresa vedere come personaggi del passato siano così estremamente attuali e, come pur essendo legati al mondo della Chiesa, siano testimoni di un messaggio dal valore sociale, culturale persino economico che potremmo definire universale
Come ho già ricordato, sia tra le élites che alla base, molti considerano la presenza italiana all’estero una realtà scomoda e quasi considerano un’ostinazione il fatto di aver mantenuto o riacquistato la cittadinanza italiana o il fatto di rivendicare la propria origine. È una posizione miope non solo dal punto di vista culturale, ma anche dal punto di vista economico e commerciale per un Paese basato sull’export e sull’attrazione turistica tra i primi posti al mondo. Il Rapporto Italiani nel Mondo è nato per superare questa impostazione, sollecitando tutti a rendersi consapevoli che in un mondo globalizzato la disponibilità di una rete, consistente, diffusa e di qualità, costituisce una ulteriore garanzia per una buona affermazione. Ribadendo che la storia e la riuscita dell’emigrazione italiana non si può ridurre al protagonismo di pochi, si può fondatamente ritenere che queste élites affermatesi all’estero – dalle università alla politica, dalle aziende alla scienza, dall’arte ai vari ambiti sociali e teologici – possono costituire con le loro idee una risorsa preziosa per un Paese che vive una pesante crisi economica e culturale. In Italia è stata fatta una legge per incentivare il ritorno dei cosiddetti ‘cervelli’ – forse meglio chiamati ‘ricercatori’ – e si deve auspicare che possa avere una certa efficacia, ora completa dei decreti applicativi. Sappiamo, però, che la maggior parte di questi ricercatori resterà all’estero e che comunque l’apporto delle loro esperienze, la loro capacità di confronto, la loro percezione di ciò che non va confrontato con le esperienze estere e le conseguenti suggestioni possono consentire all’Italia di recepire quanto di meglio è stato realizzato all’estero. Essi, insomma, possono diventare un motore della crescita, rimettendo in modo un meccanismo che si è fermato, di conoscenza e apprezzamento del nostro Paese. In conclusione, come sintetizzare il messaggio di questo volume ricco di dati, annotazioni storiche, analisi di contesti nazionali e territoriali, approfondimenti culturali e pastorali, che ha coinvolto non solo la redazione centrale ma nell’insieme 65 autori dall’Italia e da diversi Paesi esteri? Chi vive in Italia deve inquadrare l’emigrazione come una parte viva del suo presente e chi vive all’estero deve mostrare un maggiore attaccamento alle vicende italiane: entrambi devono offrire il loro apporto progettuale. Contrariamente a quanto si crede, la politica per gli italiani all’estero è innanzi tutto una questione di idee e può costituire un ‘motore’ di sviluppo, allargando contatti, percorsi, progetti anche di cooperazione e risorse per la crescita, che valorizza anche gli italiani fuori dall’Italia, aiutando anche così a leggere il Paese reale.