Migrantes Bergamo

''Simulando contentezza'': la prefazione



“Fare spazio all’altro
significa arricchire la propria identità,
aprirla a orizzonti nuovi,
mettere ali alle nostre radici”

Parole odierne, che certo potrebbero essere pronunciate da Agostino e da sua fratello, al termine della loro vicenda, alla fine della loro parabola di vita.
Ma non così probabilmente agli inizi. “Partimmo da casa, simulando contentezza”: con queste semplici parole Agostino ci trasmette quel carico di sentimenti che ha riempito i cuori e le valige, un tempo di cartone, ora forse digitali, ma sempre cariche di struggente nostalgia delle proprie terre.
Ognuno di noi, molto probabilmente, conosce un’esperienza simile a quella dei fratelli Tiraboschi di Zambla, ben raccontata dallo stesso Agostino nelle pagine che compongono questo volume.
Certamente chi è originario delle valli orobiche ha avuto un parente, un amico, un conoscente, un vicino di casa che ha vissuto l’emigrazione in un Paese straniero. Molti andavano in Svizzera, Francia, Belgio, altri in Sudamerica e in particolare in Argentina, come testimonia il memoriale raccolto qui.
Pensiamo che queste pagine possano essere molto care a Papa Francesco. Proprio nei giorni della sua elezione stavamo decidendo la pubblicazione di queste memorie: il veder apparire dalla terrazza delle benedizioni un figlio della chiesa argentina, che ha nel proprio cuore e nel proprio sangue anche il sapore della terra italiana non ha fatto altro che avvalorare tale scelta.

Il Santo Padre, come ormai è noto a tutti, proviene da una famiglia piemontese la cui storia è molto simile a quella dei fratelli Tiraboschi. Lui è nato in Argentina e il nome, Jorge Mario, è tipicamente spagnolo. Ma il cognome, Bergoglio, è inconfondibilmente italiano. Il padre emigrò in Sudamerica e lì nacque il futuro Pontefice. Così come i fratelli di Zambla, il vissuto, le emozioni del padre del Papa possono in qualche modo essere rilette in questo volume. Fa parte della storia di centinaia di migliaia di italiani che sono emigrati in Argentina. Ora la figura carismatica di Papa Francesco riporta l’attenzione su questo tema e su questo pezzo della storia mondiale. Una storia mondiale non semplicemente scritta nei libri e talvolta estranea, ma una storia fatta dai vissuti della gente, dalle parole semplici ma al tempo stesso sapide, che mischiano italiano, dialetto e il nuovo idioma ormai fatto proprio; una storia che, apparentemente lontana, intesse invece relazioni con la terra che è nostra e con il passato che è nostro; una storia fatta forse dagli esclusi dalle ribalte, ma che sono coloro che hanno costruito quei tessuti comunitari di cui oggi i nostri piccoli borghi e paesi vanno ancora molto fieri.

Credo che queste pagine siano molto importanti soprattutto per le giovani generazioni, per coloro che non hanno vissuto in maniera diretta l’emigrazione. Leggere una testimonianza di un bergamasco che ha vissuto il distacco dalla propria terra e le difficoltà che ha incontrato lungo il suo percorso di vita, vale molto di più di tanti saggi storici e sociologici. Infatti, nelle parole di Agostino Tiraboschi si possono assaporare le emozioni, gli stati d’animo, i ricordi della sua vita lontano da casa. E spesso è proprio questo che manca ai trattati accademici o alle notizie riportate dai media quando si parla di migrazione: non ci sono le storie, le emozioni, le esperienze reali delle persone.
Spesso ci si sofferma sui numeri, solo sui numeri, che non danno ragione della vita, delle persone che rappresentano. Certo, anche i numeri sono importanti, e ci lasciano ancor più attoniti quando scopriamo che un secolo fa nell’anno 1911 i migranti partiti da Bergamo erano, solo in quell’anno, più di 25.000, come risulta dalle statistiche elaborate dal Segretariato Emigranti.
Fin da allora, in effetti la Chiesa di Bergamo si era dotata di tale istituzione per accompagnare gli Emigrati all’estero, con lo scopo “di moderare e regolare l’Emigrazione, di assistere religiosamente, moralmente e materialmente gli Emigranti Bergamaschi temporanei e permanenti, in patria e all’estero ed anche possibilmente di organizzarli”. Il Segretariato Emigranti nasceva nel 1908 presieduto da don Santo Balduzzi.

Oggi l’Ufficio diocesano esiste ancora, ma ha perso la lettera “e” davanti al secondo sostantivo: si chiama Segretariato Migranti (anche se a breve cambierà nuovamente nome e diverrà Ufficio Migranti). Pur non dimenticando l’aspetto della migrazione degli Italiani all’estero (fenomeno ancora attuale, nonostante si sia dimenticato) ha assunto un volto nuovo. Quest’ufficio si occupa di una delle dimensioni della pastorale, ovvero la pastorale migratoria: oserei dire di quella dimensione che meglio mostra il volto cattolico, ovvero universale, della nostra Chiesa.
Una pastorale che si prende cura della dimensione religiosa dei cittadini migranti, di coloro che hanno vissuto da cattolici nelle loro terre ed ora desiderano poter vivere la propria fede attraverso le modalità che sono loro proprie, modalità fatte di cultura, lingua, ed altri aspetti che da sempre caratterizzano l’espressione religiosa. Questo testo ci testimonia (come per altro dimostrano ancora oggi le indagini sociologiche) l’importanza della dimensione religiosa nelle famiglie migranti: “tutti sapevano che Agostino e Maria erano profondamente religiosi. Una forte devozione ha accompagnato la famiglia durante tutto l’esilio lontano dalla Patria”.
Una pastorale, tuttavia, che non si limita all’attenzione ai nuovi cittadini, immigrati che da terre lontane giungono da noi, proprio come un tempo hanno fatto i nostri padri, in cerca di una vita migliore, magari fuggiti da guerre, violenze o carestie. Questo è infatti uno degli aspetti dell’attenzione alla migrazione oggi, ma non l’unico.
Destinataria della pastorale migratoria è tutta la comunità cristiana, fedeli della prima e dell’ultima ora, credenti che esprimono la loro fede in forme a noi abituali e credenti che utilizzano lingue, espressioni culturali che talvolta ci sorprendono, altre volte ci lasciano sconcertati.
L’immigrazione è, infatti, un fenomeno che ha cambiato il “nostro” territorio, una delle realtà sociali tra le più rilevanti del nostro tempo. Tale cambiamento, che potremmo definire rivoluzionario per la sua entità, per la sua modalità e per i suoi effetti, è ormai sotto gli occhi di tutti. In pochissimi anni quella che ci pareva un’emergenza risolvibile a breve termine si è trasformata in realtà quotidiana con cui fare i conti.
È una realtà che ci ha spiazzato, sia per le dimensioni che il fenomeno ha assunto, come anche per la velocità con cui si è sviluppato (ma non più di tanto, se si rilegge la storia: basti pensare che negli anni 1909-1911 i bergamaschi emigrati furono oltre 70.000). Una realtà che ci ha sorpreso, mettendoci concretamente di fronte al dilemma sempre antico e sempre nuovo: quale Chiesa vogliamo essere? Una storia che sta facendo emergere il meglio e il peggio della nostra società e anche della nostra comunità cristiana.
Il meglio, da un lato. Basti pensare a tutto il lavoro di volontariato reso possibile dalla generosa disponibilità di tante persone, ricambiate dalla possibilità di fare incontri che ci portano ai quattro angoli del globo. Sono storie di donne e di uomini che si sono fatti prossimo a colui che era nel bisogno e non aveva nessun fratello di sangue che lo potesse aiutare; sono vicende di chi ha saputo ascoltare la parola “ero forestiero e mi avete ospitato” e l’ha realizzata nell’oggi, senza la paura di essere additato come nemico della società; sono insomma fatti di Vangelo.
Fa emergere il meglio, ma non solo… oltre al positivo, non si debbono nascondere anche quei segni problematici, che speriamo siano meteore e non punte di iceberg, ovvero le espressioni di paura nei confronti dell’altro, lo sfruttamento (del lavoro, ma anche della prostituzione), il diffondersi di atteggiamenti di razzismo (sentimento trasversale ad ogni appartenenza, culturale, etnica e forse anche religiosa), e quella preoccupata indifferenza denunciata anche dal presidente della Repubblica Italiana in varie occasioni.
La presenza, numericamente sempre più elevata, da apparire quasi incontrollabile, ha suscitato in molti un senso di paura, invasione e di perdita delle proprie coordinate culturali tradizionali. Ma non è stato il medesimo disorientamento che quei due fratelli portavano nel cuore il giorno della loro partenza? Non sono state le medesime fatiche che anche loro hanno affrontato incornando un mondo diverso da quello che hanno lasciato?
Ritengo per questo importante per la comunità cristiana rileggere la propria storia: le vicende, le difficoltà dei padri emigranti ci sono di grande aiuto nel comprendere la fatica che i figli oggi fanno nell’accoglienza, la fatica che tutti, è innegabile, facciamo nel leggere e capire l’attuale fenomeno dell’immigrazione. Emigranti e immigrati: persone spinte dalle medesime motivazioni a lasciare il proprio Paese. E le difficoltà di dialogo, relazione, integrazione sono le medesime. Certo, non si possono sovrapporre del tutto i due fenomeni che hanno caratteristiche diverse, anche perché è la società globale che è cambiata. Tuttavia conoscere, capire la vicenda personale e quindi storica di questi due fratelli di Zambla, ci può aprire una strada per l’accoglienza dei nuovi cittadini che passi dall’ascolto delle loro storie, dei loro bisogni, sogni, speranze, aspettative, per costruire un mondo di vera fratellanza.
C’è un limite all’accoglienza, occorre riconoscerlo, ma questi non possono essere dettati dall’egoismo di chi si chiude nel proprio “bene stare”, quando piuttosto dall’incapacità di fare spazio, realmente, all’altro che mi viene incontro. Non possiamo dimenticare, come credenti, quanto sant’Ambrogio sosteneva: “scegliere gli ospiti equivale ad avvilire e svuotare l’ospitalità”.
Sulla scorta di questa grande esperienza che portiamo nelle nostre famiglie e nei nostri vissuti, anche noi saremo capaci di contribuire al ripensamento del nostro essere cittadini, alla riformulazione delle categorie della cittadinanza, che non è semplicemente un sistema giuridico astratto, ma la modalità concreta di elaborare la convivenza civile, in una società sempre più dal volto multi- …, che noi vorremmo fosse sempre più inter-…
Nella qualità dell’accoglienza daremo ragione di una storia italiana, storia di naviganti e poeti, migranti e oggi immigrati, che non desidera altro che poter affermare: “L’Italia sono anch’io”.
“Fare spazio all’altro significa arricchire la propria identità, aprirla a orizzonti nuovi, mettere ali alle nostre radici”

don Massimo Rizzi
direttore dell’Ufficio Migranti
Diocesi di Bergamo