Migrantes Bergamo


Giornata Mondiale dei Migranti e dei Rifugiati
Domenica 13 gennaio 2013


Omelia del Vescovo



Cari fratelli e sorelle,
abbiamo celebrato in questi giorni la nascita di Gesù che rivela a tutti gli uomini l’amore di Dio e nello stesso tempo la volontà di Dio, che non è diversa dal suo amore.
Quest’oggi ci è donata una parola che cambia radicalmente la condizione di coloro che credono in Gesù. Nel momento del battesimo di Gesù, ricevuto da Giovanni, il battesimo che verrà appunto superato dall’opera di Gesù perché dice Giovanni: io ti battezzo con l’acqua, ma lui ti battezzerà con lo Spirito Santo. Ebbene in questo che celebriamo oggi che viene rivelato questa parola del Padre che è per Gesù innanzitutto, che alla fine scopriamo essere per ciascuno di noi. “Tu sei il mio Figlio, l’amato. In te ho posto il mio compiacimento”.
Abbiamo lasciato Gesù piccolo, abbiamo lasciato Gesù nella sua fanciullezza, lo troviamo all’inizio della sua missione, appunto in questo gesto di condivisione della condizione umana che è segnata dal peccato, quindi Gesù che si mette insieme a peccatori, a coloro che hanno bisogno di conversione e ascoltano la parola di Giovanni. Lui che è senza peccato, lui che viene a riscattare dal peccato compie la sua opera mettendosi insieme ai peccatori. Quasi confondendosi con loro. E ricevuto questo battesimo, lo Spirito scende in questa forma che evoca la fine del diluvio, un’era nuova e la voce del Padre: “Tu sei il mio Figlio, l’amato. E io mi compiaccio che questa opera che compi è la mia volontà. È il mio amore che si sta manifestando nel modo in cui Tu stai operando”.

Cari fratelli e sorelle, questa Parola di Dio si riversa su di noi, nel giorno del nostro battesimo noi abbiamo ricevuto questa stessa parola: “Tu sei il mio Figlio, l’amato”. L’opera di Gesù ha creato un’umanità nuova e coloro che credono in Gesù entrano in quest’opera, ne diventano testimoni, ricevono questo dono che è la paternità di Dio, un legame che ci rigenera continuamente. Padre e madre generano alla vita, ebbene il Padre, che è Dio, ci rigenera alla vita. È una condizione nuova. Penso ai momenti di assoluta disperazione. Penso ai momenti in cui sperimentiamo la morte. Penso ai momenti in cui pensiamo che il male debba assolutamente prevalere e penso al fatto che noi siamo esseri in questa condizione. Di essere figli di Dio e quindi di essere chiamati a vivere da figli di Dio. E uno dei modi assolutamente decisivi, coerenti con questa condizione è la fraternità. Una fraternità che non è frutto semplicemente di un buon sentimento, che non è frutto semplicemente del rispetto reciproco della dignità umana di ciascuno, ma che è frutto di questa condizione inaudita “Io sono figlio di Dio, tu sei figlio di Dio, noi siamo fratelli e sorelle nel Signore”. Lo siamo nelle condizioni della nostra vita, non vivremo nella stessa casa.

Essere fratelli e sorelle nel Signore, che cosa significa? Che le relazioni che stabiliamo tra noi, tra vicini e lontani, tra persone che si frequentano normalmente e persone che si frequentano occasionalmente, tra persone che vivono la vita famigliare e persone che vivono nello stesso paese, nella stessa città, nello stesso territorio. Ebbene la relazione tra fratelli e sorelle nel Signore è una relazione che prende la forma negli insegnamenti di Gesù. Viviamo da fratelli e sorelle nel momento in cui viviamo secondo il Vangelo.
Ci sono uomini e donne che danno testimonianza di questo vivendo insieme, ma la maggior parte di noi non vive insieme, vive con la propria famiglia, però abbiamo la comunità, abbiamo un paese, abbiamo un territorio, abbiamo mille condizioni nelle quali ci troviamo fianco a fianco con fratelli e sorelle nel Signore. Se tutto questo è vero, se questa è la nostra fede, allora siamo chiamati a vivere tra noi le relazioni secondo il Vangelo. Al di là degli stessi legami familiari, dell’appartenenza di una stessa comunità precisa, per cui una comunità diventa veramente senza confini, in cui il fratello e la sorella nel Signore, che viene da un altro Paese, che parla un’altra lingua, che vive una cultura diversa, è in realtà parte di quella famiglia più importante che è la famiglia dei figli e delle figlie di Dio. È proprio dentro questa convinzione, noi siamo cristiani a partire da queste convinzioni. È in questo orizzonte che noi celebriamo l’annuale Giornata Mondiale dei Migranti e dei Rifugiati. La celebriamo con un particolare ricordo, non solo per questi noi fratelli e sorelle, ma per la parola che il Santo Padre ogni anno rivolge a tutti su questa esperienza.

Quest’anno il messaggio del Santo Padre evoca la celebrazione dell’anno della fede, del cinquantesimo del Concilio ecumenico, per cui s’intitola “Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza”. In effetti, scrive il Santo Padre, fede e speranza fondono un binomio inscindibile nel cuore di tantissimi migranti. Fede e speranza dunque riempiono spesso il bagaglio di coloro che emigrano. Grande immagine questa del pellegrinaggio. La migrazione è un pellegrinaggio di fede e di speranza. Il Papa dice “è facilissimo immaginare per molti che si spostano dai loro Paesi che la migrazione sia un pellegrinaggio di speranza perché ci si porta nel cuore la speranza di una vita migliore”. Questo desiderio, questa speranza, è la speranza di tutti: una vita migliore.
E poi il Papa dice “non c’è speranza senza una fede”. Evoca innanzitutto la fede in Dio, che dà forza alla speranza, anche nei momenti in cui la speranza di una vita migliore è messa alla prova, ma appunto la fede in Dio ti fa resistere alla prova, fa resistere alla tua speranza nella prova. La fede è anche addirittura di chi non crede, e questo lo dobbiamo riconoscere che moltissimi dei fratelli e delle sorelle che vivono nel nostro Paese sono partiti con la fede in Dio che è Gesù Cristo e secondo altre strade e vie di fede. Forse a volte arrivano nel nostro Paese e rimangono un pochino sconcertati e qualche volta si ammalano della malattia di tanti fra noi che è il sospetto della fede, la presa di distanza dalla fede. Come faremmo a reperire le nostre speranze, senza la fede. E quanto più grande sarà la nostra fede, e la fede in Dio sarà più grande quanto più grande sarà la nostra speranza.
Ma insieme all’immagine del pellegrinaggio, il Papa rievoca anche l’immagine drammatica della fuga. Sì, perché alcuni lasciano i loro Paesi non con la speranza di una vita migliore, ma semplicemente sotto la pressione di una necessità, sotto la pressione della paura, per la loro vita, per la vita delle loro famiglie, del loro futuro. Paura che si accompagna ad un senso di precarietà. Ancor prima che pensare alla speranza, pensare appunto all’approdo che alimenta la speranza, coloro che devono lasciare sotto il peso della necessità, che a volte significa la sopravvivenza, la speranza lascia il posto alla precarietà. Precarietà e incertezza espongono veramente ad un futuro altrettanto precario e incerto. Non possiamo sottovalutare che nel mondo ancora sono molti che lasciano i loro Paesi non per coltivare una speranza, ma per sfuggire alla paura.
C’è una terza immagine che il Papa evoca nel suo messaggio e che è l’immagine della traversata. Conclude il suo messaggio evocando una lettera sulla speranza che aveva scritto qualche anno fa, e parlando della vita come una traversata, a volte in un mare in tempesta. Anche qui, questa immagine, che parla a tutto il mondo perché la Giornata è mondiale, provoca in modo particolarissimo al nostro Paese. Che è approdo di traversata, a volte, assolutamente drammatiche. Il Papa dice: “l’attraversata è fatta di oscurità, spesso il mare è in tempesta, spesso scende la notte su questa traversata, ma evoca anche la luce delle stelle che dà fiducia a coloro che navigano e la luce di Cristo che diventa la stella decisiva della speranza di ogni uomo nella sua traversata della vita. E allora che facciamo, con il cuore ricco di queste convinzioni, di queste consapevolezze.

Riassumere le parole di un uomo come il Santo Padre è difficile, ma permettete di raccogliere alcune sue affermazioni attraverso questi tre binomi.
Accoglienza e responsabilità. È inevitabile, se tutto quello che abbiamo appena ricordato è vero, che noi testimoniamo concretamente le nostre convinzioni attraverso un atteggiamento di accoglienza. D’altra parte siamo consapevoli che l’accoglienza, proprio perché non è un sentimento estemporaneo, deve trovare forma e questa forma assume i criteri della responsabilità. Non è semplicemente un sorriso, un gesto pur necessario di attenzione, questa è la vita. E quindi accoglienza e insieme responsabilità. Responsabilità di ciascuno, responsabilità della comunità cristiana, responsabilità della comunità tutta, del nostro Paese, di chi lo governa.
Un secondo binomio è quello della solidarietà e della giustizia. Solidarietà e giustizia non si escludono, sono ambedue necessarie ad una convivenza serena, ricca, sicura, non mortificante, non discriminante, non esposta al disordine, addirittura al crimine e alla delinquenza. Serve solidarietà per tutto questo, non basta la giustizia. è necessaria la consapevolezza di essere tutti parte della costruzione di un’unica comunità.
Il terzo binomio è rappresentato dal dialogo e dalla evangelizzazione. Dialogo con tutti, dialogo a partire con l’esperienza con tutti, dialogo che significa ascolto innanzitutto dell’esperienza dell’altro. E anche da parte del cristiano il coraggio dell’annuncio del Vangelo.

Cari fratelli e sorelle, da tutto questo ne scaturisce un appello. Dice il Santo Padre: “La Chiesa e le varie realtà che ad esse si ispirano sono chiamate di fronte ai migranti ad evitare il rischio del mero assistenzialismo per favorire l’autentica integrazione. L’integrazione non è assimilazione, l’integrazione è incontro, non assimilare altri con altre culture, con altre esperienze alla nostra. Ma è incontro. Integrazione è un processo che esige il protagonismo di tutti, altrimenti dovremo subire semplicemente questo processo, non è questa la nostra prospettiva. Non ci stiamo difendendo, noi vogliamo da protagonisti favorire questo incontro. Non può essere semplicemente garantito dalla legge. Anche se la legge è necessaria. Non può essere semplicemente garantita dalla buona volontà degli altri, ma da una buona volontà comune, che per noi attinge dalle convinzioni fondamentali della fede. Diceva ieri mons. Vittorio Nozza nel convegno che si è tenuto a Mapello: “l’integrazione significa relazione tra persone ed è anche un processo di tutta la società e non soltanto di una parte di essa.
Cari fratelli e sorelle, non sono solo le persone che vengono da altri Paesi che si devono integrare nel nostro, ma siamo anche noi che dobbiamo integrarci con loro. Questo è il favorire un’autentica integrazione. Che non sia qualche cosa che subiamo o addirittura dobbiamo difenderci. La Parola di Dio dice “Tu sei il figlio mio, l’amato. In te mi sono compiaciuto”. La scelta dell’incarnazione, il Dio di Gesù Cristo, il Dio dal volto umano che è venuto con noi e condivide con noi, si è integrato con la nostra umanità peccaminosa, lui che non è peccatore in questa incarnazione continua attraverso coloro che sinceramente credono in Lui.

Trascrizione non rivista dall’autore